La calvizie colpisce, anche se con gradi differenti, otto uomini su dieci nel corso della vita e non risparmia nemmeno le donne (si stima che tra il 25 e il 33% della popolazione femminile occidentale ne venga interessata, con intensità variabile). Un problema estetico non privo di rilevanti riflessi psichici per chi deve fare i conti con la progressiva perdita dei capelli.
La ricerca scientifica è impegnata da anni nel compito di trovare delle terapie capaci di offrire una soluzione definitiva al problema. E, da qualche tempo a questa parte, l’attenzione di numerose ricerche in ambito tricologico si va focalizzando sulle cellule staminali che, in prospettiva, potrebbero rappresentare quel tocco di bacchetta magica capace di far rispuntare, o almeno di rinfoltire, la chioma perduta.
L’ultimo studio sulle staminali per rigenerare le potenzialità dei follicoli piliferi arriva dal Giappone. Alcuni ricercatori della Tokyo University of Science, sotto la supervisione del dottor Takashi Tsuji, hanno dimostrato che, manipolando delle cellule staminali adulte, è possibile ottenere bulbi piliferi in grado di avviare un processo di crescita e ricrescita dei peli. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista online “Nature Communications”.
Gli studiosi hanno usato follicoli creati da cellule staminali adulte e li hanno impiantati su un gruppo di topi glabri. Nel giro di poche settimane, sono iniziati a crescere dei peli sul dorso dei roditori. Ma l’aspetto più sorprendente è stato l’avvio di un normale processo di ricrescita dei peli anche dopo la caduta. I peli, infatti, hanno stabilito delle connessioni a muscoli e nervi sotto la pelle, proprio come avviene naturalmente.
Lo step successivo del percorso intrapreso dagli studiosi nipponici sarà quello di avviare una sperimentazione su soggetti umani. Il dottor Tsuji sembra ottimista circa la possibilità di rigenerare capelli nuovi grazie alla ricerca compiuta da lui e dai suoi collaboratori. Anzi, lo scienziato nipponico sostiene che le cellule staminali somatiche adulte potrebbero consentire persino la realizzazione di organi bioingegnerizzati sostitutivi.
L’unico inconveniente è che bisognerà ancora attendere molto prima che i pazienti possano beneficiare del trattamento: dieci anni circa, stando alle previsioni del dottor Tsuji.
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di Giuseppe Iorio